Stelle di stelle

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È noto che le innumerevoli luci che compongono il cielo stellato non sono a noi contemporanee, per via di uno scherzo birbone del tempo e dello spazio. Succede infatti che, a causa delle distanze immense che ci separano da quelle stelle, la luce prodotta dagli astri giunga sulla Terra con altrettanto immenso ritardo, direttamente proporzionale alla distanza[1]. Può dunque succedere che le luci di alcune stelle siano a noi visibili anche se quelle stelle si sono estinte da milioni di anni.

Trasformando questa magnifica illusione in metafora, Baglioni in questa canzone accosta gli artisti (“stelle” dello spettacolo) alle stelle del cielo. Ciò che accomuna i due termini della metafora è appunto l’effetto illusorio di continuare ad essere vivi anche dopo la morte: gli artisti attraverso le loro opere, e le stelle attraverso la loro luce che continua ad irradiarsi nello spazio.

Si tratta, in effetti, di una illusione di immortalità, ed è evidentemente questo il motivo che spinge Baglioni a dichiarare, all’inizio della canzone, di voler diventare un artista (“Io sperai di esser tra quelli…”). Occorre tener presente, inoltre, che questa dichiarazione è anche funzionale allo sviluppo narrativo che sottende l’intero album, visto che proprio quel verso iniziale indica molto chiaramente l’inizio di un cammino esistenziale verso una direzione ben precisa (che invece era espresso molto vagamente nella programmatica canzone iniziale, Dagli il via).

Stelle di stelle ha, apparentemente, una struttura molto semplice, essendo composta da una strofa di ampie dimensioni che si ripete per una seconda volta con alcune variazioni e con l’aggiunta del controcanto di Mia Martini. In realtà, prestando maggiore attenzione, ci si accorge presto che la strofa è a sua volta composta da una serie di frasi melodiche ognuna delle quali ha un senso compiuto in sé. Piuttosto che considerare la strofa come un blocco unico, può valere allora la pena suddividerla in varie sezioni, per poi distinguere più facilmente le differenze rispetto alla sua riproposizione. La strofa, composta da cinque frasi musicali, può dunque essere suddivisa in cinque sezioni che chiameremo A B C D E, tutte di quattro battute con l’eccezione di D, che ne ha tre. In questa parte della canzone Baglioni si espone chiaramente in prima persona (la canzone comincia con un Io) e manifesta – come già detto – il suo desiderio di diventare un artista evidenziando, degli artisti, la vita così diversa dalla norma, e il particolare destino che fa sì che non muoiano mai veramente.

Dal punto di vista musicale è interessante notare che tutti gli intervalli che costituiscono l’incipit melodico della prima battuta (da quando Baglioni comincia a cantare) sono intervalli di seconda minore:

 

 

Questo intervallo è caratteristico per il fatto di rappresentare tradizionalmente, nella retorica musicale, la forma minima di lamento in musica, e può essere identificato anche con il nome di nota dolente[2]. Dopo la prima battuta di seconde minori, la melodia continua con un’altra serie di seconde (maggiori, questa volta), ma in generale si può osservare come l’intervallo di seconda (minore o maggiore) caratterizzi l’intero brano, e per questo motivo sia particolarmente degno di attenzione, in quanto responsabile della creazione di un’atmosfera genericamente intimista e meditativa.

Un altro elemento musicale ricorrente in tutto il brano – e dunque degno di nota – è il modo in cui procede la linea melodica di basso. Sin dall’introduzione, forse non a caso affidata proprio al basso, appare evidente il movimento cromatico discendente, una progressione che dal Mi porta al Si (nel caso dell’introduzione) attraverso questa successione di note, che copre un intervallo di quarta giusta: Mi – Re♯ – Re – Do♯ – Do – Si. Questa figurazione melodica era assolutamente tipica in età barocca, soprattutto nella forma di quattro note del tetracordo discendente che, «diatonico o cromatico, ostinato o no, semplice o composito, diventa poi un generico emblema sonoro di affetti lamentosi»[3].

Entrambi gli artifici retorici dell’intervallo di seconda (nota dolente) e della quarta discendente cromaticamente appartengono dunque alle convenzioni formali e drammaturgiche del lamento seicentesco, e sono ripresi da Baglioni per rafforzare musicalmente ciò che vuole comunicare all’ascoltatore.

Il senso del brano si chiarisce nella ripetizione della strofa, con la voce di Mia Martini che cantando un testo diverso si alterna o si sovrappone (sulla parola “storia” e sul verso “senza di noi / anche le stelle bruciate lassù”) al testo cantato da Baglioni. Al di là della suggestione di questo duetto, mantenendo l’attenzione sul testo cantato da Mia Martini ci si accorge che in ogni sezione della strofa viene espressa una apparente contraddizione. In AI ci si chiede come il cielo possa finire, in BI i fiori recisi profumano ancora, in CI il mare sembra fermarsi all’orizzonte, e in DI ci si chiede se una storia possa mai sfuggire finché qualcuno è disposto a raccoglierla dagli artisti. Nelle sezioni AI, BI e CI, inoltre, compare l’opposizione tra e no, apparentemente senza motivo. In realtà, il motivo è coerente con la contrapposizione di elementi che sta alla base di tutto il brano, che oppone continuamente ciò che è a ciò che sembra e viceversa, come in un continuo gioco di specchi. Nella parte finale della strofa, che elimina la sezione E a favore di due nuove parti musicali (F e G), entrambi i testi cantati da Baglioni e da Mia Martini rivelano ciò che fino a quel momento avevano in qualche modo tenuto nascosto.

Baglioni, dopo aver parlato della vita degli artisti per tutto il brano, mette in scena la loro morte (“si spense il viso / il suo sorriso / e la voce”), anche se il verbo morire era già comparso precedentemente in un paio di occasioni (“ma neanche poi muoiono mai”, oltre che nella parte di Mia Martini). Alla luce di questo, risulta ora chiaro anche il perché dell’utilizzo di stilemi musicali legati al lamento seicentesco, che frequentemente rappresentavano situazioni drammaturgiche o semplicemente musicali legate in qualche modo alla morte[4].

Mentre Baglioni tratteggia questa scena della vita che finisce, Mia Martini contemporaneamente canta di un’ultima apparente contraddizione: quella delle stelle che in cielo continuano a brillare, nonostante siano già bruciate. Un po’ come la voce di quei cantanti che non sanno (non possono) più cantare.

 


[1] Le distanze nello spazio si misurano, infatti, in anni-luce. Un anno-luce è la distanza percorsa dalla luce nell’arco temporale di un anno.

[2] Stefani Gino, Marconi Luca, Ferrari Franca, Gli intervalli musicali, Milano, Bompiani 1990, p. 127.

 

[3] Bianconi Lorenzo, Il Seicento, Torino, EDT 1982 (2a ed., 1991), p. 230.

[4] Basti pensare, giusto a titolo di esempio, al Lamento d’Arianna di Monteverdi, o al Crucifixus della messa solenne di Bach.

 

 

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